Bufalino e Comiso

Da amanti è il rapporto che lega uno scrittore al suo luogo di nascita. E quello tra Bufalino e Comiso è tra i più appassionati e duraturi che si conoscano: per ammissione stessa del nostro, infatti, “…dei ventitremila giorni e passa che ho vissuto finora, ne avrò trascorso in questo luogo almeno ventunmila: abbastanza per poter vantare nei suoi confronti gli stessi rapporti di confidenza e complicità che si hanno con gli amici di gioventù, e per saperne riconoscere da lontano gli umori e i malumori, le voci e gli odori, non altrimenti che se si trattasse di una persona” (G. Bufalino, Comiso, ancora, in La luce e il lutto). È la città con il suo antico centro, i campanili e le facciate barocche delle due chiese maggiori, l’antico fiume dal nome sdrucciolo che la lambiva, le cave di pietra di un colore dolce e rasserenante come il miele degli Iblei cantato da Virgilio, a nutrire l’immaginazione ubertosa di Bufalino; sono gli abitanti di questa città teatro, personaggi ora tragici ora comici di un palcoscenico naturale, fatto di stradine a gradoni che dalle estreme pendici degli Iblei degradano via via fino alla pianura che si stende verso la costa di Camarina, a costituire materia sempre nuova alla sua fervida invenzione.

E come in ogni commercio amoroso, lei, la città bionda di pietre, riceve in cambio doni inestimabili dal suo facondo amante. Ché, come a tante donne accade, forse non sapeva nemmen lei di essere tanto ricca, e bella, ed affascinante: dalle parole consegnate dallo scrittore alle sue tante opere, in prosa e in versi, alle terzepagine di importanti quotidiani, Comiso esce trasfigurata, un luogo-mito, il centro del mondo intero, una città che Bufalino invoglia a visitare: “ci venga dunque a trovare di sabato il turista continentale. E scelga di giungere da oriente, da Ragusa, se vuol ammirare, discendendo giù per gli Iblei, di tornante in tornante, un paesaggio di rara beltà, col mare di Gela in vista laggiù, e mezza Sicilia orientale ai piedi, a perdita d’occhio, verde e bruna, sotto un tenerissimo cielo” (G. Bufalino, Comiso, città teatro, in La luce e il lutto).

Né va mai dimenticato che Comiso è una città della Sicilia, anzi di una di quelle innumerevoli Sicilie che il viaggiatore attento può scoprire in questo triangolo di terra, posta fatalmente al centro del Mediterraneo, che in quanto isola alcuni si ostinano ciecamente a considerare una sola cosa, unitaria e monotona, mentre essa è molteplice, anzi plurale. La sfida dunque è lanciata: venga il viaggiatore e si conceda qualche giorno per conoscere questa, tra le tante Sicilie! Lo faccia d’estate, quando, dopo il tramonto, al Belvedere di Monserrato, qualche alito fresco di vento lo risarcisca pietoso dell’afa patita del giorno. Ma lo faccia soprattutto nelle ore più calde, quando il paese sprofonda nel silenzio del filu di vespru, come un paladino d’altri tempi, uno di quello delle saghe dei pupi, a capo scoperto sotto il nostro sole d’agosto.

Raccolta la sfida, e vinta la prova, il viaggiatore attratto a Comiso dagli inviti di Bufalino, accetti ora dallo scrittore di giungere all’agone più arduo: in direzione contraria rispetto allo sconfortante appiattimento della lingua, si misuri con una prosa preziosa e allusiva, accolga come un atto d’amore la difficoltà della sua narrativa. Sì, un atto d’amore, che in maniera quasi profetica ha fatto presagire al nostro autore il pericolo dell’impoverimento progressivo della nostra lingua; che lo ha portato a scegliere la strada più impervia, su cui invitare il suo lettore ideale, dicendogli - senza dirglielo mai - che le vie più agevoli portano alla noia, alla piattezza, alla perdita di un patrimonio inestimabile, che solo arricchisce una terra e il suo popolo; che, al contrario, le strade più erte e difficili guadagnano gloria agli eroi - per aspera ad astra - e li incoronano di memoria perenne.  

Scoprirà, allora, il viaggatore/lettore che neppure Bufalino, esattamente come la sua Sicilia e la sua Comiso, può essere ricompreso sotto una definizione unitaria, di cui quella di “scrittore barocco” risulta essere la più nota. Ne risulterebbe svilito il suo genio creativo, salvo che non si voglia cogliere grazie a quell’aggettivo, “barocco”, la sorpresa sempre nuova che la scrittura di Bufalino suscita; l’arditezza delle volute delle sue costruzioni sintattiche; i preziosismi del suo vocabolario; la maestria nel passare con leggiadra sveltezza dalla scrittura in versi, alla narrativa più distesa, alla concentrazione fulminea dell’illuminazione aforistica. C’è materia di lettura e approfondimento per ogni lettore: per l’appassionato della lirica, i versi dedicati all’Ippari

Ippari vecchio, bianchissimo greto

a te ho consegnato la mia infanzia,

l’empia novella t’ho raccontato.

Come serpi nelle tue crepe

stanno tutti i miei giorni ad aspettarmi,

sotterrata nell’acque tue

c’è la pietra del mio cuore.

Ippari vecchio, fiume di vento,

voglio un’estate venirti a trovare.

Quanta rena di tempo è volata

fra le tue sponde di luce veloce,

quante tacquero trecce scellerate

ai davanzali che non scordo più

Ah moscacieca d’occhi e di scialli,

ah vaso mio di basilico scuro,

bocca murata dell’amor mio!

Ippari vecchio, fiume ferito,

fammi sentire la tua voce ancora.

Per strade rosse me ne sono andato,

per strade nere ritornerò;

col guizzo estremo d’aria fra le labbra

da lontano il tuo nome griderò.

Arrivare potessi alla tua foce

di crete pigre, di canne dolenti,

dove ti cerca sterminato il mare.

Ippari vecchio, zingaro fiume,

dove tu muori voglio anch’io morire.

 

Per il cultore di narrativa, i romanzi più famosi, nei quali il ruolo della memoria risulta centrale, come nell’impareggiabile incipit di Argo il cieco:

Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell’estate. E forse fu grazia del luogo dove abitavo, un paese in figura di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo fra un campanile e l’altro, trafelate come staffette dei Cavalleggeri del Re…che sventolare, a quel tempo, di percalli da corredo e lenzuola di tela di lino tra i vicoli delle due Modiche, la Bassa e la Alta; e che angele ragazze si spenzolavano dai davanzali, tutte brune. Quella che amavo io era la più bruna.

Per tutti, indistintamente, la concentrazione dell’aforisma, gioiello di riflessione e tecnica.

Capita a volte di sentirsi per un minuto felici.

Non fatevi cogliere dal panico: è questione di un attimo e passa.

Benvenuti in Sicilia, quindi, ai nostri viaggiatori/lettori. E benvenuti a Comiso, Musa di Gesualdo Bufalino!

 

Maria Rita A. Schembari - Sindaco di Comiso